
Cosa succede al cervello durante il sonno
PUBBLICATO IL 14 MARZO 2025
Notte prima degli esami è il titolo di una famosa canzone di Antonello Venditti e il ritornello degli studenti che passano la notte in bianco a leggere e a sperare di tenere a mente le nozioni utili a passare l’esame il giorno successivo.
“Studiare in questo modo, di notte e affidandosi principalmente alla memoria a breve termine, funziona per i giovani cervelli freschi, ma sul lungo periodo non è efficace. Privarsi di un sonno ristoratore impedisce infatti al cervello di fissare le memorie apprese.
Dormire serve anche a mantenere i ricordi a lungo termine”, ci racconta Roberto Furlan, Direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele e Professore Associato di Patologia Generale presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
“Dormiamo per consolidare i ricordi, per recuperare le energie che abbiamo consumato durante la veglia, e per ripulire il cervello dai rifiuti che vi si sono accumulati come conseguenza della sua attività diurna”, continua il professor Luigi Ferini-Strambi, Direttore del Centro dei Disturbi del Sonno presso l’Ospedale San Raffaele e Ordinario di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
In occasione della giornata mondiale del sonno (14 marzo), abbiamo chiesto al professor Furlan e al professor Ferini-Strambi che cosa accade al nostro cervello mentre dormiamo.
Il cervello che dorme: le fasi del sonno
“Durante la veglia, il nostro cervello è continuamente in attività, soprattutto nelle sue regioni anteriori che regolano il giudizio, il movimento e l’esecuzione delle azioni. La veglia è mediata da un gran numero di neurotrasmettitori, i messaggeri chimici che rendono possibile la comunicazione tra i neuroni, come glutammato, GABA, dopamina, acetilcolina, noradrenalina, adrenalina, istamina e orexina - spiega Ferini-Strambi -.
Durante il sonno, invece, le regioni cerebrali anteriori consumano pochissima energia. I neurotrasmettitori coinvolti nel mantenere lo stato di riposo sono relativamente pochi: GABA e galanina, che regolano la fase del sonno chiamata Non-REM; acetilcolina, che entra in gioco nella fase REM”.
Il sonno è articolato in 4/5 cicli in cui le fasi Non-REM (1, 2 e 3) e quella REM si alternano tra loro:
- la fase 3 Non-REM è quella del sonno profondo, durante il quale l’attività delle regioni cerebrali anteriori è ridotta al minimo. Questa fase, che dura di più nella prima parte della notte, è indispensabile per recuperare buona parte delle energie consumate durante la veglia e per immagazzinare la memoria dichiarativa, cioè relativa alla propria identità anagrafica (per esempio, come mi chiamo, quando sono nato) e agli episodi del proprio vissuto;
- la fase REM (dall’inglese, Rapid Eye Movement, movimento rapido degli occhi) è quella in cui sogniamo, ed è più lunga nella seconda parte della notte. Questa fase, caratterizzata da rapidi movimenti oculari, è importante per immagazzinare la memoria procedurale, con la quale ricordiamo i passaggi per l’esecuzione di un compito, e la memoria emozionale.
“Durante il sonno profondo Non-REM, in particolare, si verificano i processi di pulizia del cervello che garantiscono la rimozione dei prodotti di rifiuto dell’attività cerebrale. Questa pulizia consiste in una sorta di ‘lavaggio del cervello’ messo a punto dal sistema glinfatico”, racconta Ferini-Strambi.
Il sistema glinfatico: la nettezza urbana del cervello
Nel 2012, la neuroscienziata danese Maiken Nedergaard descrisse per la prima volta il sistema glinfatico, un’intercapedine larga pochi nanometri e situata tra le parti dei capillari cerebrali e i processi (una sorta di piedi allungati) degli astrociti, un tipo di cellule che fornisce supporto meccanico e nutritivo ai neuroni.
“Di notte, questa intercapedine si riempie del liquido che irrora le cellule nervose, nel quale durante il giorno si raccolgono le sostanze di rifiuto dell’attività nervosa.
Il sistema glinfatico, dunque, si comporta come una sorta di nettezza urbana: di notte porta via (drena) il liquido pieno di scarti potenzialmente neurotossici, proteggendo di fatto il nostro cervello”, spiega il professor Furlan.
Tra i rifiuti cerebrali, oltre alla proteina beta amiloide, il cui accumulo è associato alla malattia di Alzheimer, troviamo anche detriti cellulari come i residui di alcune sinapsi, cioè le connessioni tra i neuroni.
Normalmente, i ricordi sono immagazzinati nel cervello sotto forma di sinapsi tra cellule nervose. Tuttavia, non è possibile trattenere, come memorie a lungo termine, la miriade completa di informazioni che inondano il cervello ogni giorno. Pertanto, questo seleziona solo alcune connessioni da mantenere a lungo termine, sbarazzandosi di quelle che non sono importanti.
La selezione viene operata rafforzando le connessioni da mantenere, mentre quelle da eliminare vengono tagliate via attraverso una potatura delle sinapsi, che produce detriti cellulari, i quali sono quindi portati via dal sistema glinfatico.
“Studiare e trattenere a lungo termine le informazioni apprese significa dunque avere un buon equilibrio tra rafforzamento e potatura delle sinapsi, che è reso possibile anche dal lavoro di pulizia del sistema glinfatico. Dato che quest’ultimo è attivo soprattutto durante il sonno profondo, dormire bene è indispensabile per ricordare a lungo”, continua il professor Furlan.
Affinché il sistema glinfatico faccia il suo lavoro in modo efficace, non solo è importante assicurarsi una quota sufficiente di sonno profondo, ma è necessario anche dormire sul fianco.
Come evidenziato dal professor Ferini-Strambi, “la ricerca, a cui noi stessi come Ospedale San Raffaele abbiamo contribuito, negli ultimi anni ha mostrato che l’azione di drenaggio e rimozione dei rifiuti del sistema glinfatico è più efficace se si dorme sul fianco, piuttosto che in posizione supina”.
Fotografare il sistema glinfatico
Oggi è possibile osservare indirettamente l’attivazione del sistema glinfatico negli esseri umani utilizzando protocolli specifici di risonanza magnetica funzionale, la tecnica che consente di rilevare indirettamente l’attivazione delle aree del cervello.
È possibile, inoltre, avere una prova indiretta dell’azione del sistema glinfatico andando a misurare la concentrazione dei cosiddetti neurofilamenti a catena leggera nel sangue.
I neurofilamenti a catena leggera sono proteine dello scheletro dei neuroni che possono finire nel sistema glinfatico come conseguenza dei processi di potatura delle sinapsi alla base del consolidamento dei ricordi.
“È stato osservato che la concentrazione nel sangue dei neurofilamenti a catena leggera aumenta al mattino rispetto a quella misurata alla sera. Gli scienziati hanno interpretato quest’aumento mattutino della concentrazione di neurofilamenti come una conseguenza dell’azione notturna del sistema glinfatico, che trasporta queste proteine fuori dal cervello”, spiega Furlan.
Il sistema glinfatico e la scoperta dei vasi linfatici
Un’altra funzione fondamentale del sistema glinfatico è quella di riversare i fluidi di scarto nei vasi linfatici situati nella dura madre, una membrana che riveste l’interno della scatola cranica e l’esterno del cervello, proteggendolo.
Per lungo tempo, gli scienziati hanno pensato che il cervello fosse del tutto privo dei vasi linfatici. Quest’ultimi, identificati nel resto del corpo, rimuovono dai tessuti eventuali agenti estranei, come proteine virali o altre minacce, e li trasportano ai linfonodi, le strutture che ospitano le cellule immunitarie preposte a neutralizzare tali minacce.
“Poco dopo la scoperta del sistema glinfatico, nel 2015 sono stati finalmente descritti i vasi linfatici durali, i quali presumibilmente raccolgono i rifiuti e le minacce provenienti dal cervello e veicolati dal sistema glinfatico.
Sebbene una prima descrizione di questi vasi linfatici risalga addirittura alla fine del Settecento, per opera del neuroanatomista e illustratore Paolo Mascagni, solo in tempi recentissimi essi sono stati effettivamente riconosciuti come tali.
Questo perché i vasi linfatici che corrono nella dura madre somigliano tantissimo ai vasi sanguigni, per struttura e caratteristiche molecolari, e gli scienziati che li hanno descritti nel 2015 hanno faticato non poco a convincere la comunità della ricerca della novità di tale scoperta”, racconta il professor Furlan.
Non è ancora chiaro in che modo il sistema glinfatico che bagna direttamente il cervello dialoghi con i vasi linfatici che corrono alla sua periferia.
“La ricerca sta indagando la fisiologia del sistema glinfatico nell’uomo, in condizioni normali. Comprendere il funzionamento di questo sistema così affascinante è importante per capire anche che cosa accade quando l’intercapedine si ostruisce, per esempio, con le proteine di accumulo come la beta amiloide nella malattia di Alzheimer.
È possibile ipotizzare che nei manuali di neurologia del futuro ci sarà una sezione dedicata alle cosiddette glinfaticopatie, cioè tutte le malattie in cui si osserva un’ostruzione del sistema glinfatico. La sua fisiologia e il suo eventuale coinvolgimento nei processi immunitari sono comunque tutti da capire”, conclude Furlan.