Cardiopatie e ipertensione: perché il coronavirus è pericoloso?

PUBBLICATO IL 20 MARZO 2020

Chi soffre di queste malattie cardiovascolari è più a rischio di sviluppare complicanze da COVID-19. Ecco ciò che sappiamo finora su questa predisposizione.  

Tra le categorie di malati cronici in assoluto più a rischio di sviluppare forme gravi di COVID 19 – e che quindi devono essere particolarmente attenti a proteggersi dal virus – ci sono i cardiopatici, gli ipertesi e in generale le persone con preesistenti malattie cardiovascolari.

Diversi studi clinici e di laboratorio iniziano a spiegare i motivi di questa predisposizione e potrebbero indicarci nuove modalità di intervento.

Rischio di pazienti cardiopatici e ipertesi: cosa sappiamo

Secondo i dati italiani raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e resi pubblici pochi giorni fa, il 75% dei primi 155 pazienti deceduti a causa dell’infezione da nuovo coronavirus soffriva di ipertensione, mentre il 70% era affetto da cardiopatia ischemica. 

Si tratta di numeri che confermano quanto già emerso in Cina e pubblicato sulla rivista medica JAMA dal Chinese Center for Disease Control and Prevention a fine febbraio.

Secondo i dati cinesi inoltre, la letalità del virus – partendo da un valore medio sulla popolazione poco superiore al 2% – sale per le persone ipertese al 6% e raggiunge addirittura il 10% nei pazienti con scompenso cardiaco o altre malattie cardiovascolari o cerebrovascolari croniche. 

Le complicanze cardiovascolari da COVID-19

Il fatto che le persone con patologie cardiovascolari siano a maggior rischio di manifestare un decorso critico dell’infezione da coronavirus non è solo legata alla maggiore fragilità sistemica di questi pazienti.

Già oggi sappiamo infatti – come sottolinea il bollettino pubblicato dall’Associazione Americana dei Cardiologi Clinici – che tra le complicanze della malattia COVID-19 molte sono di tipo cardiovascolare, con aritmia e danno cardiaco acuto in testa.

“Non è sorprendente che una malattia che colpisce l’apparato respiratorio in modo così aggressivo possa causare danni a livello cardiovascolare, e quindi colpire più duramente i pazienti che già presentano patologie cardiovascolari croniche - spiega Giulio Melisurgo, cardiologo presso l’Unità di Terapia Intensiva Cardiochirurgica diretta dal professor Alberto Zangrillo -. 

La scarsa capacità dei polmoni, intaccati dal virus, di ossigenare il sangue ha infatti come diretta conseguenza un carico di lavoro superiore per il cuore, a cui viene chiesto di pomparne di più e più velocemente. 

Inoltre, non si può escludere che l’infezione virale causi un danno diretto alle cellule del cuore, come è stato già dimostrato nel caso di infezione da altri tipi di coronavirus. Infine, la stessa risposta infiammatoria innescata da SARS-CoV-2 potrebbe avere degli effetti dannosi sul miocardio”. 

Coronavirus e impatto sul cuore: il recettore ACE2 

Secondo una ricerca pubblicata pochi giorni fa su Nature Reviews Cardiology, l’azione del virus sul cuore potrebbe essere mediata da un recettore particolarmente espresso sia dalle cellule dei polmoni che dalle cellule del tessuto cardiaco. 

Si chiama ACE2, è stata scoperta nel 2002, e secondo i primi studi, il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) – esattamente come il coronavirus responsabile dell’epidemia SARS nel 2003 – sarebbe in grado di legarsi a questa molecola molto espressa a livello cardiovascolare grazie a una sua proteina di superficie, la cosiddetta proteina “Spike”. 

“Se l’ipotesi venisse confermata avremmo una spiegazione del meccanismo alla base di alcune delle manifestazioni a livello cardiaco di COVID-19 - continua Giulio Melisurgo.

Non solo, ma bloccare questo legame potrebbe ipoteticamente costituire una strategia terapeutica efficace per questi pazienti”. 

Il dibattito medico-scientifico 

Al momento in ambito cardiologico il coinvolgimento di ACE2 ha destato un grosso dibattito, in quanto gli antipertensivi più largamente prescritti sono gli ACE-inibitori e i sartani, che hanno meccanismi d’azione diversi ma entrambi possono interferire sul funzionamento di questo enzima. 

Secondo alcuni ricercatori queste classi di farmaci potrebbero amplificare gli effetti negativi di SARS-CoV-2 sia a livello polmonare che cardiaco, secondo altri invece alcuni farmaci appartenenti a questa classe potrebbero addirittura svolgere un’azione protettiva nei confronti del virus. 

“La verità è che allo stato attuale nessuno studio è in grado di confermare né l’una né l’altra ipotesi e un recente documento diramato dalla Società Europea di Cardiologia raccomanda di continuare ad utilizzare abitualmente queste classi di farmaci, come stabilito dalle Linee Guida internazionali” - conclude Melisurgo.

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