Malattia di Alzheimer: a che punto siamo con la diagnosi precoce basata sui test del sangue

Malattia di Alzheimer: a che punto siamo con la diagnosi precoce basata sui test del sangue

PUBBLICATO IL 25 SETTEMBRE 2025

Malattia di Alzheimer: a che punto siamo con la diagnosi precoce basata sui test del sangue

PUBBLICATO IL 25 SETTEMBRE 2025

L’Alzheimer, di cui il 21 settembre si è celebrata la Giornata Mondiale, è una malattia neurodegenerativa che colpisce principalmente la memoria e altre funzioni cognitive. 

A questo proposito, abbiamo intervistato il prof. Massimo Filippi, direttore dell’Unità di Neurologia, del servizio di Neurofisiologia e dell'Unità di Neuroriabilitazione e ordinario di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele (UniSR) e la prof.ssa Federica Agosta, Group Leader del laboratorio di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative e associata in Neurologia presso UniSR, per approfondire il tema dei biomarcatori nella diagnosi precoce di questa malattia.

 

Non solo sintomi clinici: la biologia della malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è caratterizzata da specifici segni biologici, i più noti dei quali sono: 

  • l’accumulo anomalo di aggregati di proteina beta-amiloide
  • la formazione di grovigli neurofibrillari di proteina tau nel cervello

Questi depositi compromettono progressivamente la comunicazione tra i neuroni, fino a determinarne la morte.

Da tali alterazioni biologiche derivano i sintomi clinici tipici, come la perdita di memoria e altri deficit cognitivi. “È sempre più evidente che i sintomi clinici non possono essere considerati separatamente dai processi biologici che caratterizzano la malattia, i quali ne precedono necessariamente l’esordio - spiega il professor Filippi -.

Quando una persona manifesta i primi disturbi cognitivi riconducibili all’Alzheimer, ci troviamo di fronte a una fase clinica iniziale, ma non per forza a una fase biologicamente precoce della malattia”, commenta il professor Filippi. 

Le modifiche biologiche nel cervello possono infatti avere inizio fino a decenni prima della comparsa dei sintomi.

 

I biomarcatori e la diagnosi precoce di malattia di Alzheimer

Riconoscere le alterazioni biologiche in fase precoce è fondamentale per poter intervenire tempestivamente e rallentare l’evoluzione della malattia e la comparsa dei sintomi clinici.

Un biomarcatore è un indicatore misurabile di un processo biologico, rilevabile attraverso analisi di laboratorio o tecniche di imaging, che fornisce informazioni sulla presenza o sull’andamento di una malattia. 

Nel caso dell’Alzheimer, i biomarcatori più studiati per informare la diagnosi della malattia riguardano proprio le alterazioni delle proteine beta-amiloide e tau responsabili dei depositi e dei grovigli osservati nel cervello.

Già dai primi anni 2000, sono stati introdotti i primi biomarcatori per identificare la malattia di Alzheimer in persone con sintomi clinici sospetti. Oggi la diagnosi si basa sulla combinazione di più elementi: 

  • la storia clinica e familiare del paziente; 
  • l’analisi dei sintomi riportati; 
  • l’esame neurologico con test neuropsicologici; 
  • la rilevazione dei biomarcatori.

Questi ultimi vengono ricercati attraverso esami di medicina nucleare, come la PET, che mostra la presenza di placche amiloidi nel cervello, e tramite rachicentesi, una puntura lombare che consente di quantificare le forme alterate di beta amiloide e tau nel liquido cerebrospinale. 

La PET e la rachicentesi, però, possono risultare esami costosi e relativamente invasivi per il paziente. Per questo, la ricerca ha puntato a sviluppare metodi diagnostici alternativi, capaci di rilevare i biomarcatori dell’Alzheimer in modo meno invasivo, più economico e applicabile su larga scala, mantenendo la stessa affidabilità e precisione. 

Una delle soluzioni più promettenti è il prelievo di sangue, che permette di misurare le forme patologiche di beta amiloide e tau associate alla malattia.

 

Un test del sangue per diagnosticare precocemente la malattia di Alzheimer

Nel maggio 2025, la FDA (Food and Drug Administration, in italiano Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali) ha autorizzato negli Stati Uniti il primo test del sangue specifico per la diagnosi di Alzheimer. È approvato per adulti di età maggiore o uguale a 55 anni che mostrano già segni e sintomi di declino cognitivo. 

Il test del sangue permette di rilevare alterazioni nei livelli delle proteine beta-amiloide e tau proprie della malattia e ottenere un’indicazione della presenza della malattia. 

Questo test rappresenta un’alternativa meno invasiva alle tecniche diagnostiche tradizionali come la PET cerebrale o la puntura lombare. In Europa, al momento, non è ancora stato approvato un test del sangue equivalente con l’autorizzazione regolatoria dell’EMA (European Medicines Agency, in italiano Agenzia Europea per i Medicinali) per l’uso clinico per diagnosi di Alzheimer.

Un aspetto da sottolineare è l’elevata accuratezza: studi indicano che quando il test è positivo, nella maggior parte dei casi (oltre il 90%) anche gli esami più approfonditi (PET o rachicentesi) confermano alterazioni compatibili con la diagnosi di Alzheimer.

È tuttavia bene specificare che, nonostante i biomarcatori nel sangue siano molto utili per rilevare la biologia della malattia, attualmente non permettono da soli di prevedere con certezza se e quando compariranno i sintomi clinici in un soggetto che è ancora asintomatico. Alterazioni biologiche, infatti, indicano che i processi patologici sono in corso, ma non garantiscono che la persona svilupperà sintomi cognitivo-clinici in un termine preciso.

“L’auspicio è che, in futuro, possano essere sviluppati test del sangue affidabili e facilmente accessibili, da utilizzare anche a livello di medicina generale per identificare precocemente le persone a rischio, per esempio persone con familiarità positiva, prima ancora della comparsa dei sintomi”, afferma la professoressa Agosta. 

Tuttavia, al momento, l’uso per screening del rischio di malattia nella popolazione asintomatica non è approvato. 

 

I test del sangue per l’identificazione dei candidati al trattamento con gli anticorpi monoclonali

Fino a oggi, non esistevano trattamenti in grado di modificare la biologia alla base della malattia di Alzheimer. Oggi, per le fasi iniziali della malattia e per gruppi di pazienti selezionati, sono disponibili gli anticorpi monoclonali, come lecanemab e donanemab, che agiscono rimuovendo dal cervello le placche amiloidi caratteristiche della patologia.

“In questo contesto, la diagnosi biologica si prefigura come una condizione necessaria, seppur non sufficiente, per poter accedere al trattamento con questi farmaci - commenta la professoressa Agosta -. Di conseguenza, la diagnosi biologica si rivelerà imprescindibile per tutti i pazienti che presentano le caratteristiche cliniche e genetiche idonee a ricevere gli anticorpi monoclonali”.

 

La prevenzione e i fattori di rischio modificabili

Anche se non è ancora possibile prevenire la malattia di Alzheimer in senso stretto, alcune strategie preventive si concentrano sulla riduzione del rischio complessivo di declino cognitivo, agendo su determinati fattori di rischio modificabili

Secondo l’ultima valutazione della Commissione Lancet (2024), circa il 45% dei casi di demenza potrebbe essere evitato o ritardato intervenendo su 14 fattori modificabili durante l’arco della vita. Questi includono: 

  • un’istruzione insufficiente (prima dei 20 anni); 
  • l’ipertensione; 
  • l’obesità (in età adulta); 
  • la perdita dell’udito e della vista non trattata;
  • i fenomeni depressivi;
  • l’inattività fisica;
  • il diabete;
  • il colesterolo LDL elevato; 
  • il fumo; 
  • il consumo eccessivo di alcol;
  • l’inquinamento atmosferico;
  • i traumi cranici;
  • l’isolamento sociale. 

Intervenire su questi fattori può contribuire in modo significativo alla riduzione dell’incidenza della demenza nella popolazione generale.

In particolare, la Commissione sottolinea il ruolo centrale di uno stile di vita attivo, sia dal punto di vista fisico che cognitivo. Mantenere una vita mentalmente stimolante, attraverso attività come la lettura, la formazione continua, i giochi di logica o l’interazione sociale, è una delle misure più raccomandate per preservare le funzionalità cognitive.

 

Una patologia da riconoscere

Contrariamente a quanto spesso si pensa, la malattia di Alzheimer non è una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. L’età avanzata rappresenta un importante fattore di rischio, ma il decadimento cognitivo non è una tappa obbligata della vecchiaia. 

L’Alzheimer è una malattia, e come tale deve essere riconosciuta, diagnosticata e trattata il più precocemente possibile: “Continuare a confondere l’invecchiamento con la malattia di Alzheimer alimenta pregiudizi e ritarda l’intervento. È necessario un cambiamento culturale: considerare l’Alzheimer al pari di altre patologie gravi, per cui la diagnosi precoce è fondamentale”, conclude la professoressa Agosta.