Schizofrenia: che cos’è e come si cura

PUBBLICATO IL 26 SETTEMBRE 2022

La schizofrenia è una malattia psichiatrica che colpisce le persone in età giovanile, con una prevalenza ed incidenza limitate, ma con conseguenze croniche importanti sulle persone che ne soffrono, se non curate adeguatamente. 

Si tratta di una patologia mentale invalidante e che richiede cure continuative. In Italia ne soffrono circa 245 mila persone secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità. Con un intervento precoce e cure integrate e personalizzate, tuttavia, oggi si può migliorare notevolmente la qualità di vita dei pazienti, come spiega il Prof. Roberto Cavallaro, direttore dell’Unità di Riabilitazione Psichiatria Generale e della ‘Disease Unit’ dedicata ai disturbi psicotici all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e Ordinario di Psichiatria all’Università Vita-Salute San Raffaele.

Come si manifesta: i sintomi

La schizofrenia porta le persone che ne sono affette ad  una perdita nella capacità di funzionamento quotidiano, a causa dei principali elementi caratterizzanti e sintomi, variamente combinati da soggetto a soggetto,  e che sono: 

  • decadimento cognitivo (deficit di funzioni importanti come l’attenzione, alcune componenti della memoria, delle capacità di pianificare, programmare e adattarsi in modo utile ai ‘feedback’ dell’ambiente);
  • deliri (convinzioni o idee persistenti non corrispondenti alla realtà non ‘criticate’ da chi ne soffre, cioè per la persona che ne soffre sono indistinguibili dalle inferenze reali);
  • disorganizzazione del pensiero e del comportamento; 
  • allucinazioni (false percezioni sensoriali, solitamente uditive, in mancanza di uno stimolo esterno, le cosiddette ‘voci’ inesistenti, ma percepite come quelle reali, ma anche rumori sentiti dal paziente in assenza di stimolo);
  • apatia (mancanza di interesse verso qualsiasi cosa);
  • anedonia (perdita del piacere e dell’interesse verso le attività di solito gratificanti);
  • avolizione, che corrisponde alla mancanza di motivazione o capacità di finalizzare attività comuni nella vita di tutti i giorni. 

La perdita di funzionamento quotidiano

La perdita di funzionamento quotidiano può essere tale che questa malattia, pur essendo poco frequente, rientra nelle prime 20 patologie umane che causano più ‘anni vissuti in disabilità’, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Quando si parla di perdita di funzionamento quotidiano si parla delle abilità abituali svolte quotidianamente coerenti con l’età e il contesto di vita della persona. Si possono osservare quindi una riduzione o perdita della capacità di studiare o lavorare, e nei casi più gravi anche una difficoltà a badare a sé nelle semplici azioni quotidiane come prendersi cura della propria persona, della propria abitazione, avere ritmi e stili di vita adeguati e finalistici. Sempre nello stesso ambito abbiamo deterioramento o una perdita completa delle relazioni sociali, a causa di un progressivo isolamento, perdita delle amicizie e delle relazioni in genere. 

La gravità dei sintomi

La gravità dei sintomi è variabile e molto dipende dalla tempestività delle cure che devono integrare: 

  • terapia farmacologica per migliorare e prevenire la riacutizzazione dei sintomi cosiddetti ‘positivi’, più evidenti come deliri, allucinazioni, disorganizzazione;
  • terapia riabilitativa per agire sul ripristino del funzionamento quotidiano attraverso programmi comportamentali migliorando le funzioni neuro-cognitive (quali memoria a breve termine, attenzione, capacità di pianificazione ed astrazione) e socio-cognitive (cioè la capacità di essere pienamente competenti nella complessa interazione sociale umana). 

Queste funzioni vengono deteriorate dalla malattia in modo più subdolo, soprattutto nei primi anni dall’esordio e sono correlate alla perdita del funzionamento quotidiano in modo più significativo, ma anche ad una ridotta risposta ad i programmi riabilitativi comportamentali, per questo devono essere oggetto di trattamento nella progettazione dell’intervento.

 

Le cause della schizofrenia 

Gli esperti concordano sulla complessità delle cause, spiega il professor Cavallaro:  “L’Interazione di più fattori combinati in modo diverso e con pesi relativi diversi influisce sul rischio a livello individuale: tra questi la genetica e fattori di rischio biologici e ambientali che hanno un effetto ‘epigenetico’, come alcune problematiche perinatali o  più tardi l’uso di sostanze durante l’adolescenza (in particolare la cannabis), e la presenza di eventi e situazioni di vita stressanti come la migrazione, l’appartenenza ad un gruppo sociale di minoranza, l’urbanizzazione ed altre. Questi ultimi fattori sono detti ‘epigenetici’ perché modulano l’espressione del rischio genetico e assieme ad esso determinano le disfunzioni sottostanti i fenomeni psicopatologici ed il deterioramento cognitivo” continua il Prof. Cavallaro.

“E’ importante specificare che la familiarità per il disturbo spiega solo una quota relativa del rischio e molti casi sono definiti ‘sporadici’ cioè senza alcun membro affetto nella famiglia di origine, casi in cui le componenti epigenetiche agiscono su configurazioni genetiche di rischio probabilmente ampiamente distribuite nella popolazione generale”. 

 

Quando rivolgersi allo specialista?

Nessuno dei sintomi sopra indicati è di per sé diagnostico di questa malattia, ma la contemporanea presenza di diversi di essi in età giovanile (in genere tardo adolescenziale) per un periodo sufficientemente lungo è suggestiva di una possibilità e quindi della necessità di un accertamento specialistico per un intervento precoce, chiave per migliorare la prognosi.

 

La cura 

Negli ultimi anni la gestione della malattia è migliorata notevolmente e di conseguenza anche la qualità di vita del paziente.

Oggi è possibile trattare farmacologicamente le condizioni psicopatologiche acute della malattia e che talvolta richiedono un’ospedalizzazione, riducendo contemporaneamente la tendenza alla cronicizzazione e all’aggravamento dei sintomi più clamorosi delle condizioni  acute, i ‘sintomi positivi’, a patto di una terapia costante.

La terapia farmacologica

La terapia farmacologica da sola non è abitualmente sufficiente per ottenere risultati funzionali ottimali. Il professor Roberto Cavallaro spiega: “L’intervento precoce e integrato è fondamentale per rallentare l’evoluzione della malattia e contenere la sintomatologia. Oggi si possono raggiungere livelli elevati di ‘recovery’ ed è stimato un buon esito nel 40% dei casi, contrariamente a quanto succedeva in passato. A patto di trattamenti contemporaneamente integrati e personalizzati, realizzati precocemente. 

I trattamenti farmacologici sono necessari e oggi possiamo contare su numerose molecole che migliorano anche notevolmente la sintomatologia e stabilizzano la situazione, in particolare quella dei ‘sintomi positivi’, come vengono definiti i deliri, le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero e del comportamento”.

Gli interventi riabilitativi personalizzati

“Anche i migliori trattamenti farmacologici non sono però in grado di modificare in modo clinicamente rilevante la sintomatologia cosiddetta ‘negativa’(cioè l’apatia, l’anedonia, l’avolizione, il ritiro sociale), né  il decadimento delle funzioni cognitive, dimensioni psicopatologiche entrambe fortemente correlate al malfunzionamento quotidiano. Per questo la terapia farmacologica deve essere integrata con interventi riabilitativi personalizzati allo ‘stato dell’arte’, che non agiscano solo ‘a valle’ sul comportamento, semplicemente riplasmandolo in modo utile al quotidiano, ma vadano anche ad intervenire alla base delle disfunzioni, migliorando le performance cognitive necessarie per un buon funzionamento nel mondo”.

Oggi la comunità scientifica internazionale fornisce chiare indicazioni a interventi riabilitativi di tipo neurocognitivo e sociocognitivo, associati alla riabilitazione cognitivo-comportamentale e psicosociale, che possono portare a buoni risultati in gran parte dei malati, in associazione ai trattamenti farmacologici.

La ricerca e la cura della schizofrenia

“La nostra Unità – precisa l’esperto del San Raffaele – da vent’anni si occupa di studiare le funzioni cognitive e di implementare programmi di trattamento per le stesse non solo efficaci, ma personalizzati sulla ‘carta di identità’ delle funzioni deteriorate e di quelle residue (punti di forza da utilizzare per il miglioramento) del paziente. 

Tutti i nostri protocolli nascono da osservazioni di ricerca, condivise dalla comunità scientifica internazionale e attraverso la pubblicazione dei risultati sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali, traslate poi nella clinica”.

 

Il modello di cura del San Raffaele 

Oggi i programmi disponibili presso la Disease Unit per i Disturbi Psicotici dell’IRCCS Ospedale San Raffele Turro sono multidimensionali e comprendono, oltre ad un trattamento farmacologico personalizzato anche delle forme resistenti,  la riabilitazione delle funzioni neurocognitive deteriorate (ad es. attenzione, memoria, capacità di ragionamento astratto) e di quelle sociocognitive, che riguardano cioè la capacità di avere un’adeguata  interazione sociale, integrate con programmi cognitivo-comportamentali e psicosociali più classici che, agendo in presenza di funzioni cognitive migliorate, hanno risultati superiori e duraturi. 

“Sviluppiamo il nostro programma di riabilitazione con interventi individuali e di gruppo, convenzionali o con l’ausilio di device informatici, ma anche con arteterapia e gruppi sulle attività elementari: ciascuno di essi però considera il problema cognitivo sottostante, e associato alla riabilitazione neurocognitiva diventa un mezzo più potente di cura.  

Il percorso di riabilitazione può iniziare già alla conclusione dell’episodio acuto, anche in degenza riabilitativa, in modo concentrato, per poi proseguire nel medio-lungo termine con programmi semiresidenziali o di day-hospital, a cui si può accedere anche direttamente dall’ambulatorio in caso di situazioni stabilizzatepuntualizza il primario.

Il percorso proposto al paziente si disegna valutando la clinica, le performance cognitive attraverso batterie testali specifiche, ma anche il contesto di vita, la distanza dalla struttura e le sue attitudini, strutturando un progetto terapeutico individuale.

Il consiglio

È importante non sottovalutare le prime avvisaglie di un disagio mentale rivolgendosi al proprio medico curante che possa consigliare un centro specializzato dove, se confermata questa diagnosi, il paziente possa essere seguito da un’équipe di esperti psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione dedicati alla cura dei disturbi psicotici e della schizofrenia

“Prima si interviene, minori saranno i danni che la patologia può causare all’individuo. Purtroppo esistono ancora forti pregiudizi nella società verso la malattia mentale e questo fa sì che le persone che ne sono affette siano e si sentano stigmatizzate e di conseguenza ritardino l’accesso alle cure. 

Con le conoscenze che abbiamo oggi e l’intensa e costante attività di ricerca in questo campo, la comunità scientifica è all’unanimità d’accordo che prima si interviene, e con i programmi più avanzati, maggiori e migliori sono le possibilità di cura e di ritorno verso il funzionamento premorboso” conclude Roberto Cavallaro.

Cura e Prevenzione