
La malattia di Parkinson: a che punto siamo con la ricerca di nuove terapie
PUBBLICATO IL 11 APRILE 2025
Una macchia nerastra: è l’espressione coniata dallo scienziato francese Fèlix Vicq d’Azyr (1748-1794) per descrivere un insieme di neuroni colorati di nero, situati nelle profondità del cervello umano, che egli disegnò in 2 delle 35 tavole anatomiche che compongono il suo Trattato di Anatomia e Fisiologia, con tavole colorate rappresentanti i vari organi dell’uomo allo stato naturale, pubblicato nel 1786.
I libri di anatomia che seguiranno negli anni, e poi nei secoli, successivi ribattezzeranno la macchia nerastra disegnata da Vicq d’Azyr come substantia nigra, dal latino, sostanza nera.
Ancora oggi chiamiamo substantia nigra quella regione del cervello i cui neuroni rilasciano il neurotrasmettitore dopamina (i cosiddetti neuroni dopaminergici) all’interno dei circuiti che regolano il controllo del movimento.
Questi neuroni dopaminergici della substantia nigra sono i primi a degenerare (morire) nella malattia di Parkinson, una patologia neurodegenerativa che oggi affligge almeno 8,5 milioni al mondo e per la quale, purtroppo, non esistono ancora cure neuroprotettive.
“Oggi non abbiamo ancora del tutto compreso perché siano proprio i neuroni dopaminergici della substantia nigra a morire nella malattia di Parkinson.
Questa patologia negli anni si è rivelata una condizione complessa, che non si manifesta solo con alterazioni del movimento quali tremori, lentezza e rigidità muscolare, ma anche con anosmia (perdita dell’olfatto), disturbi del sonno e della sfera sensoriale e della cognizione”, ci racconta il dottor Vania Broccoli, dirigente di ricerca presso l’Istituto di Neuroscienze del CNR e capo dell’Unità di Cellule staminali e Neurogenesi presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, che abbiamo intervistato in occasione dell’11 aprile, Giornata mondiale della malattia di Parkinson.
Malattia di Parkinson e accumulo di alfa sinucleina
Un cervello affetto dalla malattia di Parkinson è caratterizzato da accumuli diffusi della proteina alfa-sinucleina, i quali provocano la morte selettiva dei neuroni dopaminergici della substantia nigra e, di conseguenza, la comparsa dei sintomi motori.
Nelle fasi successive della malattia, questi aggregati di alfa-sinucleina compromettono la funzionalità di altri tipi di neuroni anche in altre regioni del cervello, con la conseguente comparsa di sintomi cognitivi e comportamentali, come depressione e apatia.
L’alfa-sinucleina è una proteina normalmente presente nelle sinapsi (cioè, i punti di collegamento) tra i neuroni. Nel corso della vita di un individuo, più molecole di alfa-sinucleina possono aggregarsi tra loro, formando accumuli insolubili e tossici all’interno dei neuroni.
“Abbiamo definito la struttura molecolare di questi aggregati e di come diventino tossici, ma rimane da chiarire il perché i neuroni dopaminergici della substantia nigra siano i più vulnerabili al loro accumulo”, commenta il dottor Broccoli.
I neuroni tentano di sbarazzarsi di questi accumuli di alfa-sinucleina, dapprima attraverso meccanismi di degradazione presenti all’interno della cellula stessa. Tuttavia, questi meccanismi, a un certo punto, non sono più sufficienti a rimuovere tali aggregati proteici.
“I neuroni allora cominciano a riversarli nell’ambiente extracellulare, sempre nel tentativo di sbarazzarsene - aggiunge il dottore -. Una volta all’esterno, però, questi aggregati di alfa-sinucleina sono internalizzati dai neuroni vicini, dalle cellule gliali e immunitarie della microglia”.
Malattia di Parkinson e risposta infiammatoria
Le cellule della microglia residenti nel cervello, attivate dagli aggregati tossici di alfa-sinucleina, innescano una risposta infiammatoria, per la quale fagocitano (cioè ingeriscono per demolire) questi depositi proteici, nel tentativo di proteggere i neuroni.
“Con il mio gruppo di ricerca abbiamo dimostrato che l’accumulo continuo di alfa-sinucleina nel tempo, tuttavia, esaurisce la capacità delle cellule della microglia di fagocitare gli aggregati neurotossici.
Questa microglia, funzionalmente esausta e invecchiata precocemente, richiama allora i linfociti T, cellule immunitarie che dal sangue si riversano nel cervello, innescando una risposta che può a sua volta amplificare e accelerare la degenerazione e la morte dei neuroni”, spiega il dottor Broccoli.
L’asse intestino-cervello nella malattia di Parkinson
Tra le scoperte più significative degli ultimi anni c’è l’osservazione che gli aggregati di alfa-sinucleina possono depositarsi sia nel cervello sia, addirittura, negli organi periferici, come il cuore, e soprattutto nell’intestino dei pazienti.
“Esistono diversi studi epidemiologici che indicano come i pazienti che abbiano sofferto di malattie infiammatorie intestinali cliniche siano a maggior rischio di sviluppare la malattia di Parkinson negli anni a venire”, commenta l’esperto.
Una nuova classificazione della malattia si basa sul luogo iniziale di deposito di alfa-sinucleina e infiammazione, distinguendo così 2 forme specifiche:
- La forma del Parkinson brain-first (dall’inglese, prima il cervello), nella quale l’accumulo di alfa-sinucleina e la conseguente risposta infiammatoria hanno luogo prima e direttamente nel cervello. Successivamente, l’infiammazione si propagherebbe ad altri distretti corporei.
- La forma del Parkinson body-first (dall’inglese, prima il corpo), nella quale l’infiammazione dell’intestino (e di altri organi periferici) precederebbe quella cerebrale e favorirebbe la formazione di aggregati di alfa-sinucleina a livello intestinale. Attraverso i nervi periferici, questi depositi intestinali di proteina si propagherebbero poi al cervello, dove possono innescare la risposta infiammatoria e aumentare la probabilità di degenerazione dei neuroni.
“Si stanno sperimentando diete alimentari specifiche, per esempio, ricche di fibre, vitamine e polifenoli, per alleviare l’infiammazione intestinale e tutte le complicazioni a essa associate, e verificare se possano avere un impatto nel prevenire o rallentare la progressione della malattia di Parkinson - spiega il dottor Broccoli -.
Tuttavia, si tratta di misure che non risolvono da sole la malattia, soprattutto quando questa si è già manifestata”.
Le nuove strategie terapeutiche
Oggi non abbiamo cure neuroprotettive per la malattia di Parkinson, per la quale invece sono disponibili farmaci e terapie chirurgiche o riabilitative che possono alleviarne i sintomi motori e cognitivi, senza tuttavia risolverne i meccanismi patologici alla base.
Una possibile strategia terapeutica, attualmente in fase di sperimentazione clinica, consiste nel trapiantare nel cervello dei pazienti nuovi neuroni dopaminergici differenziati a partire da cellule staminali. Questi neuroni trapiantati, una volta integrati nei circuiti cerebrali, farebbero le veci di quelli persi durante la malattia, rifornendo il cervello della dopamina necessaria a regolare il movimento.
“Si tratta di sperimentazioni importanti e innovative, che tuttavia non risolvono i meccanismi alla base della patologia. Difatti, i nuovi neuroni sono trapiantati in un ambiente in cui continua l’accumulo cronico di alfa-sinucleina e l’infiammazione. Dunque, poiché queste terapie di trapianto cellulare non risolvono l’accumulo di alfa-sinucleina e l’infiammazione, anche i neuroni trapiantati sono destinati a morire sul lungo periodo”, spiega il dottore.
Le recenti scoperte sui meccanismi infiammatori alla base della malattia di Parkinson aprono in questo senso nuove prospettive di ricerca di terapie che puntino all’immunomodulazione, cioè alla modulazione della risposta immunitaria sia a livello sistemico, cioè di tutto il corpo, sia a livello cerebrale.
“Per esempio, un recente studio clinico sta testando l’uso sistemico di farmaci immunosoppressori, come quelli approvati per malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide, anche nel trattamento della malattia di Parkinson”, continua il dottor Broccoli.
Tuttavia, questi farmaci immunomodulatori somministrati a livello sistemico presentano una ridotta capacità di agire direttamente sul cervello e possono avere maggiori effetti collaterali, dovuti alla necessità di essere assunti cronicamente da parte dei pazienti.
Per questo motivo, il gruppo di ricerca del dottor Broccoli sta testando strategie di terapia genica in modelli preclinici di malattia. In questo caso, la terapia genica utilizza una “navetta” per trasportare, direttamente nelle cellule della microglia della substantia nigra del cervello, i geni che forniscono le istruzioni per la sintesi di molecole antinfiammatorie e neuroprotettive. L’azione di queste molecole è volta a ripristinare, a lungo termine, la capacità della microglia di “mangiare e degradare” gli accumuli di alfa-sinucleina.
In questo contesto, il gruppo del dottore l’anno scorso ha pubblicato un lavoro che mostra come la citochina interleuchina 10, una molecola modulatrice della risposta infiammatoria, ripristini la capacità della microglia di fagocitare i depositi di alfa-sinucleina in modelli preclinici della malattia di Parkinson.
“Stiamo adesso testando altre combinazioni di molecole antinfiammatorie e neuroprotettive da far esprimere direttamente nel cervello di modelli ancora preclinici”, continua il dottor Broccoli.
Anticorpi monoclonali e gli studi clinici in corso
La ricerca di nuove terapie per la malattia di Parkinson si sta muovendo anche nel campo dei cosiddetti anticorpi monoclonali, farmaci che agiscono rimuovendo gli aggregati neurotossici di proteine caratteristici di diverse malattie neurodegenerative.
È un anticorpo monoclonale, per esempio, il lecanemab, un farmaco per il quale l’Agenzia Europea per i medicinali ha dato parere positivo per l’immissione in commercio proprio lo scorso novembre 2024 per il trattamento della malattia di Alzheimer in fase precoce, un’altra malattia neurodegenerativa caratterizzata dall’accumulo della proteina beta amiloide.
“Sono numerosi gli studi clinici attivi per testare l’efficacia di diversi anticorpi monoclonali anche nel trattamento della malattia di Parkinson. In questo caso, gli anticorpi sono diretti contro alfa-sinucleina e hanno lo scopo di bloccarne la propagazione e promuoverne la diffusione”, conclude il dottor Broccoli.