Distrofia muscolare: una proteina modificata riduce l’infiammazione e promuove la rigenerazione di tessuti
PUBBLICATO IL 04 GIUGNO 2021
Un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano ha identificato una proteina coinvolta nei processi di stress ossidativo e infiammazione persistente alla base della degenerazione dei tessuti nelle distrofie muscolari, malattie genetiche con un andamento progressivo e potenzialmente invalidante.
Si tratta di HMGB1, una proteina chiave nel governare sia i processi infiammatori sia rigenerativi, fondamentali entrambi per la guarigione dei tessuti.
I risultati dello studio, coordinato dalla dottoressa Emilie Vénéreau, responsabile del laboratorio di Rigenerazione Tissutale e omeostasi e pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine, hanno dimostrato in modelli sperimentali che la somministrazione di una versione modificata della proteina (3S-HMGB1) promuove la rigenerazione e migliora la funzione muscolare, oltre a ridurre l’infiammazione e la fibrosi.
La nuova proteina ingegnerizzata in laboratorio potrebbe quindi costituire in futuro una nuova strategia terapeutica per rallentare la progressione delle manifestazioni cliniche muscolari.
La ricerca è stata condotta con la collaborazione di altri gruppi di ricerca, tra cui quello guidato dal Dott. Stefano Previtali, responsabile del laboratorio di Riparazione Neuromuscolare dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, e quello diretto dalla Prof.ssa Graziella Messina dell’Università degli Studi di Milano.
Il doppio ruolo di HMGB1 nelle distrofie muscolari
Normalmente la proteina HMGB1 si trova nel nucleo delle cellule, ma in seguito a stress o a un danno tissutale può essere rilasciata all’esterno dove funziona come una sorta di allarme per richiamare il sistema immunitario nel sito danneggiato e scatenare una risposta infiammatoria. Questa reazione è fondamentale per pulire il tessuto da eventuali agenti patogeni e da cellule morte.
A questa prima fase deve però seguire rapidamente una seconda fase di rigenerazione, in cui le cellule staminali ricostituiscono il tessuto.
Già nel 2018, i ricercatori del San Raffaele avevano dimostrato che HMGB1, a seconda dello stato in cui si trova, è in grado di influenzare la transizione fondamentale tra le due fasi:
- quando è in forma ossidata, la proteina promuove l’infiammazione;
- la sua forma ridotta (non ossidata) funziona come segnale per l’avvio della riparazione tissutale.
“Dall’analisi delle biopsie muscolari di pazienti e in modelli animali di distrofie muscolari abbiamo osservato alti livelli di HMGB1 in forma ossidata che aumentano l’infiammazione e contribuiscono alla degenerazione muscolare - spiega Giorgia Careccia, prima autrice dello studio -.
Abbiamo così identificato nell’eccessiva presenza di questa forma della proteina un possibile bersaglio terapeutico per rallentare l’andamento della patologia”.
Una nuova strategia terapeutica
“Oggi molti dei trattamenti in fase di studio sono volti a neutralizzare del tutto l’attività della proteina, eliminandone in questo modo sia i suoi effetti pro-infiammatori che quelli rigenerativi - specifica la Dr.ssa Venereau - . Noi abbiamo invece pensato di utilizzare la doppia natura di HMGB1 a nostro vantaggio:
- per sviluppare un nuovo possibile approccio terapeutico mirato a promuoverne la rigenerazione muscolare;
- per limitare l’infiammazione del microambiente muscolare”.
Per fare ciò, i ricercatori hanno somministrato ai modelli sperimentali dello studio una versione ingegnerizzata della proteina (chiamata 3S-HMGB1), precedentemente creata in laboratorio sempre al San Raffaele.
La versione modificata non può essere ossidata e promuove la rigenerazione muscolare in modelli sperimentali di distrofie muscolari agendo sulle cellule staminali muscolari e limitando la risposta infiammatoria e la fibrosi.
“3S-HMGB1 è potenzialmente un promettente farmaco candidato per il trattamento delle distrofie muscolari, anche se questa proteina ingegnerizzata è stata fino ad ora utilizzata solo in laboratorio. Saranno quindi necessari ulteriori studi preclinici per valutare sicurezza ed efficacia anche a lungo termine prima di poter sperare di passare all’uomo”, conclude la Dr.ssa Venereau.